Il calcio, si sa, oltre ai
sentimenti degli appassionati, muove tante altre cose, soprattutto economico-finanziarie.
Siamo in questo a una svolta strutturale. Bilanci sani, stadi di proprietà,
ridefinizione delle remunerazioni. In Italia alcuni club si stanno comportando
meglio di quelli europei, peccato che l’azione di governo (sia locale che
nazionale) non accompagni con misure incisive quest’azione di risanamento. Tra
l’altro mettere in cantiere la costruzione di quattro/cinque grandi stadi
darebbe fiato a tante imprese piccole e medie dell’edilizia e del suo indotto.
Oltre a cogliere un’occasione di riqualificazione di aree urbane e
metropolitane. Si preferisce, invece, attizzare le polemiche, costruire polveroni,
lisciare il pelo agli ultras. C’è bisogno di svecchiamento e di sburocratizzazione
delle istituzioni specifiche del calcio e dello sport. Qualcosa si muove ma con
eccessiva lentezza. Torino e Roma, al netto delle immaturità di frange di
tifosi, stanno meglio di Milano, dove una squadra è ancora prigioniera del
conflitto di interesse del padrone e l’altra sta per passare di proprietà e non
è chiaro se questa si muoverà nel rispetto del fair play finanziario o se
replicherà i difetti dei paperoni russi, arabi o spagnoli, con grave danno per
il rigore nazionale. Il Napoli, liberatosi del provincialismo vittimista di Mazzarri
e avendo investito intelligentemente la plusvalenza del mercato, può ritrovare
una stabilità nei livelli alti ed è un’ottima notizia. «Siamo ciò che facciamo
ripetutamente. L’eccellenza non è un atto, ma un’abitudine» Diceva
Aristotele. Al Napoli questo è mancato ma Benitez è l’uomo giusto per radicare
questa abitudine e non farsi risucchiare dall’interessato e plebeo vittimismo meridionale. Roma e Fiorentina sono due splendide realtà
destinate a crescere quanto più i propri manager sapranno rendere impermeabile i
rispettivi spogliatoi alle interferenze delle tifoserie, vera croce e delizia
di questi club. Insomma ci sarebbero le condizioni per riprendersi l’eccellenza
in Europa investendo, fuor di chiacchiera e retorica, in giovani, collettivo e sudore. Il 2014 è l’anno
dei mondiali in Brasile. Ci siamo già qualificati. Il mio sogno è di arrivarci
con una Italia cambiata nei vertici. In tutti i vertici. Un’Italia dimezzata
nella sua burocrazia gerontocratica e rallentatrice, liberata dalle vecchie
figurine del Novecento. Aggiungo un sogno che mi perseguita: un’Italia che
costituisca l’Ente nazionale rifiuti, togliendo quella che è una risorsa moderna
alla rete criminogena degli interessi e delle incompetenze particolari ed affidandola
alle soluzioni della Scienza e della Tecnica. È il mio personale bandolo della
matassa…
venerdì 20 settembre 2013
martedì 13 agosto 2013
I "misuratori dello spessore" di Matteo Renzi
Una onesta analisi dei fatti, libera da interessi particolari, di fazione, di corrente o di corporazione, che non vi sovrappone, dunque, aspettative cariche di difese ideologiche o di privilegiate posizioni di rendita, sibbene mira alla sostanza della domanda principe, chi sia il più adeguato politicamente a conservare e innovare, non può che portarci a considerare con grande simpatia Matteo Renzi.
I sondaggi, da quasi due anni, lo danno in testa alle classifiche di gradimento dell’opinione pubblica con livelli tali - massime se comparati con Silvio Berlusconi e Beppe Grillo - che è evidente come il giovane politico fiorentino sia percepito allo stesso tempo portatore di una vis destruens e di una vis construens. Vale a dire che il suo messaggio politico possiede entrambi i corni che determinano insieme, nel nostro paese, un largo consenso, interclassista e generazionale.
La stessa onesta interpretazione dei fatti ci fa dire che proprio per questo, nelle passate elezioni - di fronte a un gruppo dirigente democrat mostratosi scarsamente lungimirante, poco aderente agli umori dei cittadini e fondamentalmente conservatore nello sbarrare il passo al giovane contendente le primarie - l’elettorato si è tripolarizzato. Beppe Grillo è il destruens per eccellenza, Silvio Berlusconi la delusione reiterata di rivoluzioni liberali mancate, Pierluigi Bersani il simbolo di un consociativismo almeno corresponsabile della cattiva amministrazione della cosa pubblica. Il risultato elettorale ha così prodotto lo stallo che conosciamo, obbligato Giorgio Napolitano ad accettare il secondo mandato, Enrico Letta a guidare un governo di larghe intese per un programma minimo. Nei primi cento giorni l'esecutivo non è apparso fondarsi su un programma anticipatore del minimo comun denominatore delle principali forze politiche, bensì su un prolungato braccio di ferro in chiave elettorale, con modalità che nessuno dei due principali leader del Pdl e del PD, profondamente ammaccati e feriti, appaiono in grado di definire, nonostante il pregiudiziale richiamo del Presidente della Repubblica. Un congresso libero e aperto del PD sembrerebbe l’unico passaggio efficiente per sbloccare questa situazione. Sono convinto che, nonostante in molti stiano spendendo le loro inesauste energie per disperdere l’ennesima occasione di svolta, l’assise politica dei democratici si farà incoronando leader Matteo Renzi.
In questa prospettiva che mi appare avere dalla sua la forza potente delle cose, si stanno levando,da destra, dal centro e dalla sinistra, i “misuratori dello spessore” del prossimo leader democratico. Cosa significhi “avere spessore” quando la domanda riguardi un politico vincente tra i suoi e nell’elettorato, è qualcosa che ha a che fare con le pretese mediatiche di lobby assurte a katechon, al potere che frena, direbbe il filosofo. Lo spessore di un politico , se vogliamo restare fedeli a questa terminologia, lo misurano il consenso e l'entusiasmo in grado di determinare. L'efficacia, una volta eletto, la dimostrerà l'azione di governo. Se poi con spessore si volesse intendere altro di specialistico, di accademico, di lungo corso burocratico, di titoli ed esami, staremmo, nella morente seconda repubblica, sfidando il ridicolo di fronte alle ripetute magre figure di conclamati e venerati "spessori". Tuttavia essendo da molti anni scomparsi quei pochi grandi commentatori che separavano i fatti dalle opinioni, per misurare lo spessore di qualcuno bisognerebbe esserne dotati e, soprattutto, certificati. Non mi sembra questo il caso di questi sussiegosi chiosatori.
La stessa onesta interpretazione dei fatti ci fa dire che proprio per questo, nelle passate elezioni - di fronte a un gruppo dirigente democrat mostratosi scarsamente lungimirante, poco aderente agli umori dei cittadini e fondamentalmente conservatore nello sbarrare il passo al giovane contendente le primarie - l’elettorato si è tripolarizzato. Beppe Grillo è il destruens per eccellenza, Silvio Berlusconi la delusione reiterata di rivoluzioni liberali mancate, Pierluigi Bersani il simbolo di un consociativismo almeno corresponsabile della cattiva amministrazione della cosa pubblica. Il risultato elettorale ha così prodotto lo stallo che conosciamo, obbligato Giorgio Napolitano ad accettare il secondo mandato, Enrico Letta a guidare un governo di larghe intese per un programma minimo. Nei primi cento giorni l'esecutivo non è apparso fondarsi su un programma anticipatore del minimo comun denominatore delle principali forze politiche, bensì su un prolungato braccio di ferro in chiave elettorale, con modalità che nessuno dei due principali leader del Pdl e del PD, profondamente ammaccati e feriti, appaiono in grado di definire, nonostante il pregiudiziale richiamo del Presidente della Repubblica. Un congresso libero e aperto del PD sembrerebbe l’unico passaggio efficiente per sbloccare questa situazione. Sono convinto che, nonostante in molti stiano spendendo le loro inesauste energie per disperdere l’ennesima occasione di svolta, l’assise politica dei democratici si farà incoronando leader Matteo Renzi.
In questa prospettiva che mi appare avere dalla sua la forza potente delle cose, si stanno levando,da destra, dal centro e dalla sinistra, i “misuratori dello spessore” del prossimo leader democratico. Cosa significhi “avere spessore” quando la domanda riguardi un politico vincente tra i suoi e nell’elettorato, è qualcosa che ha a che fare con le pretese mediatiche di lobby assurte a katechon, al potere che frena, direbbe il filosofo. Lo spessore di un politico , se vogliamo restare fedeli a questa terminologia, lo misurano il consenso e l'entusiasmo in grado di determinare. L'efficacia, una volta eletto, la dimostrerà l'azione di governo. Se poi con spessore si volesse intendere altro di specialistico, di accademico, di lungo corso burocratico, di titoli ed esami, staremmo, nella morente seconda repubblica, sfidando il ridicolo di fronte alle ripetute magre figure di conclamati e venerati "spessori". Tuttavia essendo da molti anni scomparsi quei pochi grandi commentatori che separavano i fatti dalle opinioni, per misurare lo spessore di qualcuno bisognerebbe esserne dotati e, soprattutto, certificati. Non mi sembra questo il caso di questi sussiegosi chiosatori.
venerdì 5 luglio 2013
giovedì 4 luglio 2013
Giaccherigno
Siamo degli insopportabili provinciali. Incapaci di guardare al fondo di noi stessi come popolo. Pronti ad esaltare sempre gli altri, Arriviamo persino ad essere razzisti verso noi stessi. Forse perché siamo i più vecchi e imbastardi del mediterraneo e dunque della storia della civiltà. Bruciati dai Vandali, impalati dai Saraceni, impestati dai Lanzichenecchi, ci siamo fatti furbi e cinici per sopravvivere. Caritatevoli per battesimo continuiamo a schiamazzare e a vociare su un bagnasciuga incuranti di un povero morto. Abbiamo costruito i comuni e le città più belle grazie al sudore e alla maestria geniale degli artigiani e corriamo compulsivi appresso ad ogni moda effimera. Nel gioco del calcio diamo il meglio e il peggio di noi stessi. Sia nel parlarne che nel praticarlo. E pure rappresentiamo, in questo che è il gioco più amato del mondo, una scuola tra le più vincenti. E, bisogna dirlo, il calcio, oltre ad essere un grande produttore di fatturato è anche un potentissimo veicolo comunicativo. Ma nel nostro calcio - come d’altronde nella nostra poltica - soffriamo di strabismo e di superficialità.
Mercoledì scorso si sono giocate in Brasile due partite decisive della Coppa delle federazioni. Brasile vs Messico e Giappone vs Italia. Cena leggera, sigarette e acqua minerale ghiacciata. In calzoncini e maglietta mi sono seduto nella mia nuova poltrona e non ne ho perso un minuto, commenti compresi. I Carioca hanno battuto i messicani due a zero, gli Azzurri hanno sconfitto i Bianchi del sol levante quattro a tre. Il primo incontro è stato di una noia mortale. Messicani gran palleggiatori fino ai venticinque metri ma dimentichi che il pallone va alla fine indirizzato verso la porta. Brasiliani che affidavano con lanci lunghi le loro sorti al nuovo re del mercato mondiale, il ventunenne Neymar. Suo il primo gol e suo il merito del secondo. Un tiro al volo da dentro l’area e un assist dopo un tunnel e una serpentina tra due difensori immobili. Durante la partita ho osservato questo nuovo eroe brasiliano lasciarsi cadere più volte al minimo contatto con una capacità recitativa del dolore pari alle sue indubbie doti tecniche. I commenti dei vari esperti assemblati nei vari network hanno raggiunto il diapason della glorificazione. Al punto che mi sono chiesto se avessi assistito ad un’altra partita. La mia indignazione si è interrotta con gli inni nazionali dell’incontro più atteso.
Due panchine dirette da due allenatori entrambi italiani. Allenatori coscienziosi, seri, di scuola italica appunto. Si è visto subito che la nostra compassata portaerei non ce la faceva a reggere l’assalto martellante e indemoniato di una squadriglia di kamikaze. Nei venticinque minuti iniziali differenza di corsa e aggressività ma anche errori tattici. Ai secondi il nostro Prandelli ha rimediato con un cambio immediato, ai primi, viste le scorie accumulatesi nelle gambe dei nostri reduci dal campionato e dalle coppe, non c’era modo di rimediare se non con lo stringere i denti e sputare i polmoni. Due a zero a favore dei nipponici in poco più di trenta minuti. Roba da schiantarsi. Ma la reazione c’è stata . A guidarla non è stato un dominatore dei mercati, né un re del gossip pallonaro, ma un giovanotto piuttosto da libro Cuore, pedatore di lunga gavetta, maestro del dà e vai, corridore che quando entra in area, dopo una corsa sfianca polmoni, insacca la testa tra le spalle come una testuggine per succhiare l’ultimo ossigeno e concentrarlo nel tiro. Giaccherigno, come lo ha orgogliosamente ( e polemicamente) ribattezzato Antonio Conte, l’allenatore vincente che lo ha preso dal Cesena. Già, Giaccherini brasiliano, che salta l’uomo pestando la linea di fondo, che fa l’assist e si inserisce e tira. Che ha mai fatto Neymar più del toscano ieri sera.? Quel dribbling bruciante in area e il tiro secco che s’è stampato sul palo? E la magia della palla ripresa sgusciando dietro la schiena dell’incredulo difensore giapponese e il traversone teso e violento che obbliga all’autorete? In una partita guerreggiata all’ultimo sorso di energia nell’apnea del Pernambuco, Giaccherini è stato il vero eroe dello storico, tanto insperato quanto cabalistico quattro a tre. Eppure i facitori dell’opinione sportiva, ormai competenti di calcio meno dei frequentatori di un bar del lunedì, hanno decretato che il sondaggio dei migliori riguardasse i due narcisi destinati già nei commenti precoppa a segnare il torneo. Lo strapagato e volubile numero 10 carioca e il nostro muscoloso e irritabile 9. Ma noi che viviamo l’Italia con occhi più compassionevoli, abbiamo sofferto e partecipato per un’altra partita. E ce la teniamo stretta assieme alle immagini del nostro umanamente immenso numero 22
Mercoledì scorso si sono giocate in Brasile due partite decisive della Coppa delle federazioni. Brasile vs Messico e Giappone vs Italia. Cena leggera, sigarette e acqua minerale ghiacciata. In calzoncini e maglietta mi sono seduto nella mia nuova poltrona e non ne ho perso un minuto, commenti compresi. I Carioca hanno battuto i messicani due a zero, gli Azzurri hanno sconfitto i Bianchi del sol levante quattro a tre. Il primo incontro è stato di una noia mortale. Messicani gran palleggiatori fino ai venticinque metri ma dimentichi che il pallone va alla fine indirizzato verso la porta. Brasiliani che affidavano con lanci lunghi le loro sorti al nuovo re del mercato mondiale, il ventunenne Neymar. Suo il primo gol e suo il merito del secondo. Un tiro al volo da dentro l’area e un assist dopo un tunnel e una serpentina tra due difensori immobili. Durante la partita ho osservato questo nuovo eroe brasiliano lasciarsi cadere più volte al minimo contatto con una capacità recitativa del dolore pari alle sue indubbie doti tecniche. I commenti dei vari esperti assemblati nei vari network hanno raggiunto il diapason della glorificazione. Al punto che mi sono chiesto se avessi assistito ad un’altra partita. La mia indignazione si è interrotta con gli inni nazionali dell’incontro più atteso.
Due panchine dirette da due allenatori entrambi italiani. Allenatori coscienziosi, seri, di scuola italica appunto. Si è visto subito che la nostra compassata portaerei non ce la faceva a reggere l’assalto martellante e indemoniato di una squadriglia di kamikaze. Nei venticinque minuti iniziali differenza di corsa e aggressività ma anche errori tattici. Ai secondi il nostro Prandelli ha rimediato con un cambio immediato, ai primi, viste le scorie accumulatesi nelle gambe dei nostri reduci dal campionato e dalle coppe, non c’era modo di rimediare se non con lo stringere i denti e sputare i polmoni. Due a zero a favore dei nipponici in poco più di trenta minuti. Roba da schiantarsi. Ma la reazione c’è stata . A guidarla non è stato un dominatore dei mercati, né un re del gossip pallonaro, ma un giovanotto piuttosto da libro Cuore, pedatore di lunga gavetta, maestro del dà e vai, corridore che quando entra in area, dopo una corsa sfianca polmoni, insacca la testa tra le spalle come una testuggine per succhiare l’ultimo ossigeno e concentrarlo nel tiro. Giaccherigno, come lo ha orgogliosamente ( e polemicamente) ribattezzato Antonio Conte, l’allenatore vincente che lo ha preso dal Cesena. Già, Giaccherini brasiliano, che salta l’uomo pestando la linea di fondo, che fa l’assist e si inserisce e tira. Che ha mai fatto Neymar più del toscano ieri sera.? Quel dribbling bruciante in area e il tiro secco che s’è stampato sul palo? E la magia della palla ripresa sgusciando dietro la schiena dell’incredulo difensore giapponese e il traversone teso e violento che obbliga all’autorete? In una partita guerreggiata all’ultimo sorso di energia nell’apnea del Pernambuco, Giaccherini è stato il vero eroe dello storico, tanto insperato quanto cabalistico quattro a tre. Eppure i facitori dell’opinione sportiva, ormai competenti di calcio meno dei frequentatori di un bar del lunedì, hanno decretato che il sondaggio dei migliori riguardasse i due narcisi destinati già nei commenti precoppa a segnare il torneo. Lo strapagato e volubile numero 10 carioca e il nostro muscoloso e irritabile 9. Ma noi che viviamo l’Italia con occhi più compassionevoli, abbiamo sofferto e partecipato per un’altra partita. E ce la teniamo stretta assieme alle immagini del nostro umanamente immenso numero 22
Top player? No, The Artist
I piedi di Paul Pogba, non affondano nell’erba del prato verde, come quelli di tutti gli altri pedatori di football. Il watusso bianconero, come tutti i cacciatori degli altipiani della sua razza, corre leggero su cuscinetti d’aria. Avanza a testa dritta; caracolla quasi indolente, scarta, gira su se stesso e continua a danzare con il pallone legato da un invisibile elastico alla sua sottile caviglia di fondista. Passa la palla in corsa e staziona visibile e raggiungibile per soccorrere il compagno triangolatore. Se deve recuperare il pallone sfuggito le sue leve disegnano archi improbabili e i suoi piedi si fanno prensili per riprendersi il maltolto e ripartire. Solo quando decide di beffare ai 25 metri l’estremo difensore avversario, solo allora, i tacchetti del suo scarpino colorato, in appoggio, perforano il sostegno impalpabile che li sorregge leggero per affondare sulla zolla del campo a caricarsi dell’energia per disegnare la parabola imprendibile. Il tifoso bianconero, che per la prima volta lo ha visto apparire nel campo nobile e familiare di Villar Perosa, complice un destino beffardo e lungimirante che lo ha sottratto alle cure del, buon per noi, troppo temporeggiatore Ferguson, ha finalmente, lì dove i passaggi banali si tramutano in illuminazione artistica, l’interprete di un lungo tratto di futura gloria e di gigantomachie. Paul Pogba. Nella sequenza onomatopeica delle due P, intervallate da un attimo impercettibile di sospensione, c’è l’esplosione ripetuta - Pum, pam - che nei fumetti che ancora amiamo accompagna l’eroe vendicatore di torti nel duello finale.
Top player? No, The Artist, e per noi italiani figli del Rinascimento è il massimo.
Top player? No, The Artist, e per noi italiani figli del Rinascimento è il massimo.
martedì 25 giugno 2013
Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti
Il cavaliere Silvio Berlusconi è
stato condannato a sette anni e all’interdizione perpetua dei pubblici uffici
dal Tribunale di Milano. A Roma si balla sulle terrazze e si fanno trenini che
non portano in nessun luogo, a Milano per ben due volte, nella sofferta storia
d’Italia, i cavalieri della destra subiscono
condanne definitive. Nel 1945 c’era stata una guerra mondiale sanguinosa voluta da una dittatura. Nel 2013 la guerra è
economico finanziaria, Arricchisce chi ha di più impoverisce i già poveri e l’intero
ceto medio. Chi ci ha governato ha responsabilità inappellabili. Hanno
esagerato i giudici di Mulano?. È probabile che lo abbiano fatto. Ma Silvio
Berlusconi è unfeat to lead per mille e uno motivi, non ultimo la natura
partitica e non trasparente del suo enorme potere imprenditoriale, economico,
finanziario, mediatico. La sentenza non travolge solo lui. Travolge tutte le
vecchie oligarchie, tutte le caste, comprese quelle di opposizione. Lui è l’ultimo
fantino rimasto a cavallo. Ha tenuto l’incollatura per l’inettitudine dell’avversario,
ma ha sfiancato il proprio cavallo - sei milioni e oltre di voti persi - drogandolo
con promesse demagogiche irrealizzabili. La caparbietà dell’inetto oppositore durante
le quirinalizie ha concesso al morto
politico Berlusconi una veglia funebre prolungata il cui seppellimento non può essere
esorcizzato da nessun miracolo, che pure in queste ore viene evocato dai
critici sofisti della cosiddetta magistratura combattente. Il Paese lo aveva
già seppellito. Pierluigi Bersani e molti degli eredi del PCI che hanno condotto
il PD nella più insensata e presuntuosa
campagna elettorale lo hanno ricollocato sul catafalco delle larghe intese.
Ora siamo di nuovo lì. Il governo
Letta sarà ancora più paralizzato dall’ira dello zombie politico. Il rinvio è
la parola d’ordine mentre la sponsorizzazione del cavaliere è una bomba
innescata per far deflagrare il conflitto istituzionale. Chi sta tra la gente
vede come i cittadini faticosamente stiano tentando, nonostante questi partiti,
di riprendere il filo per nuove imprese,
nuovo lavoro, nuove prospettive guardando ai fuochi di artificio che vengono
dai palazzi, come ai sussulti mortali dell’occhio di Gondor. Lasciate che i
morti seppelliscano i loro morti, diventa imperativo per tutti quelli che
dipendono dal proprio lavoro quotidiano, dalla propria intelligenza creativa.
Non c’è un attimo da perdere. Il
Sindaco di Firenze, Matteo Renzi è veramente una risorsa, l’ultima per la
democrazia costituzionale, così come l’abbiamo immaginata. Anche per le sue decisioni non c’è più il
tempo dei rinvii. Si deve andare al voto. Il Paese ha bisogno di un leader a
cui dare la forza e il tempo materiale necessario per ricostruire un ciclo
virtuoso di profili culturali, formativi, economici, finanziari per riportare l’Italia
all’altezza delle sfide future e fuori dal pantano fangoso a cui lo sta
condannando l’incapacità di decisione di una burocrazia tanto inetta quanto
rapace. Sfidi, Matteo Renzi, pubblicamente
il M5S a presentare congiuntamente una riforma della legge elettorale. Beppe Grillo continuerà a scommettere sul
collasso italiano e dirà di no? Sarà
processato anche lui, politicamente in questo caso, come già sta avvenendo. Il
PD faccia un congresso aperto e inclusivo e ci porti al voto, con qualunque
legge, anche con questa porcata, ma lo faccia con la guida a vocazione
maggioritaria dello spirito fondativo.
mercoledì 29 maggio 2013
Un nuovo PD : unica speranza di cambiamento
Il test elettorale che ha
riguardato sette milioni di italiani, tra i quali un aggregato molto specifico
come i cittadini romani, governati dal centro destra, conferma ciò che nell’analisi
è sempre più chiaro da un quadriennio: la rottura del patto sociale, la crisi
delle nomenclature che hanno governato venti anni della cosiddetta seconda
repubblica, il vento populista che gonfia e affloscia le vele di personaggi mediatici
che non riescono ad andare oltre la denuncia: si chiamino Orlando, Silvio Berlusconi, Di Pietro, De Magistris,
Beppe Grillo.
L’astensionismo cresce a
dismisura. Negli ultimi tre mesi a quello provocato dal disgusto per le pratiche sorde e
opache dei partiti si è aggiunto lo sconcerto di 55 giorni di confusione
quirinalizia originata da una direzione del PD tanto incapace quanto tetragona
a tutti i ragionevoli e chiari segnali inviati dall’elettorato. La sfiducia
nell’attuale sistema della rappresentanza coinvolge la maggioranza dei
cittadini. Che il fenomeno preluda a un conflitto sociale che scelga strade di
rottura e violente dipenderà molto dal persistere della crisi con
l’impraticabilità delle tradizionali politiche espansive della spesa pubblica.
Se l’Europa del Nord acconsentirà all’allentamento del rigore è possibile che le politiche di spesa permettano il
riassorbimento delle tensioni più acute? E, in questo caso, il nuovo
astensionismo si aggiungerà a quello tradizionale postbellico e accadrà da noi
quello che già avviene negli USA dove la espressione attiva del voto è
costantemente bassa? Ho seri dubbi. I due sistemi politico sociali non sono
meccanicamente comparabili. Ciò che
negli USA è fisiologico da noi è invece il portato di una protesta contro un feudalesimo politico e finanziario che alimenta rendite di posizione
ormai insopportabili e non riassorbibili nel ciclo perdurante di una crisi
continentale di lunga durata. Paghiamo quindi i ritardi di una mancato
investimento nell’innovazione, nella formazione, nella specificità
manifatturiera. Non ci mancano i fondamentali per uscirne fuori, ma ci occorrerebbero
dieci anni di un monocolore ampiamente maggioritario sostenuto da una visione
condivisa.
Grillo e Casaleggio puntano alla
fine dei partiti negando ogni politica delle alleanze. L’idiosincrasia della
mediazione è figlia della convinzione che gli interessi della cittadinanza non
siano mediabili con quelli che detengono il potere politico oggi. Lo sfascio,
l’inettitudine, la povertà del personale politico imperante è tale che non è
facile smontare la convinzione del gruppo dirigente pentastellato: hanno fatto
un pieno così tumultuoso e mai registratosi prima di voti che la controprova
del recupero è evidentemente onere di altri. E in ogni caso in quel movimento
si agitano, accanto a posizioni risibili, indubitabilmente spinte verso una
rappresentanza della decisione e della partecipazione che vanno fuori dai
confini nazionali e hanno forti analogie al nord , al sud, ad ovest e ad est
del mediterraneo. In Germania sta nascendo il Bewegung 5 Sterne. C’è quindi un
disagio di fondo nei popoli europei che è analogo sia nei paesi poco virtuosi dell’Europa del sud che in quelli più
previdenti e rigorosi del Nord.
Tuttavia, in Italia, il
dimezzamento del M5S, nel breve arco che va dalle politiche alle amministrative
del 26-27 maggio, è troppo rapido per non contenere tra le sue cause, oltre
alla tipica volubilità dei comportamenti dentro l’aggravarsi di una crisi
sistemica, la critica ad una povertà del personale politico e all’inconcludenza
nel governare che questo nascente movimento ha dimostrato in uno degli
appuntamenti istituzionali più alti italiani: la Presidenza del Consiglio e la
Presidenza della repubblica.
Silvio Berlusconi, con una
campagna elettorale politica di eccezionale sforzo mediatico e finanziario - concentrata
populisticamente sui punti sensibili immediatamente proprietari e fiscali - ha impedito che il tracollo elettorale del
centro destra fosse totale, pur perdendo oltre il 16% dei voti. Un capolavoro
tattico, accresciuto dallo stallo tripolare consegnatoci dal porcellum e dall’impetuoso
avanzare del M5S, ma al tempo stesso un non senso strategico, di fronte a una
crisi che non ammette altre soluzioni se non di affiancare alla radicale riduzione dei costi
della politica e della burocrazia statale e locale una redistribuzione della ricchezza
parassitaria accumulatasi in oltre un ventennio e una permanente lotta all’evasione.
Il blocco sociale e politico che sostiene le ultime barricate del Cavaliere,
questo lo sa perfettamente: cerca di rinviare il dimagrimento obbligatorio
sostenendo un signore che non ha visione strategica ma solo ossessioni personali
giudiziarie e, anagraficamente, poco tempo a disposizione. Questo centrodestra
è ingessato dall’origine monocratica e personalistica del suo apparato
politico: trova dunque grandi motivazioni nel primum vivere ma una incredibile
incorenza pratica nell’azione riformatrice liberale che ha promesso e di cui il
paese aveva ed ha un urgente bisogno. L’occasione che l’inettitudine e la
sordità del gruppo dirigente del PD gli ha consegnato è servita a Silvio Berlusconi per una boccata
di ossigeno. sicchè l’obbligato governo delle larghe intese non sembra
destinato a darci rapidamente quello che serve per un “bipolarismo gentile”
dell’alternanza e con una legge elettorale semplice e chiara come quella che ha
appena governato la recente tornata amministrativa. Il “problema Berlusconi”
con le sue esigenze giudiziarie resta intatto. L’innovazione e la governabilità
del paese non possono aspettarsi da quel lato nessuna disposizione benevola
alla sintesi. Il voto amministrativo,
con la dimostrazione dell’inservibilità dei sondaggi nel perdurare di una astensione
e una aleatorietà molto alta nei
comportamenti, ha incrinato i cori ottimistici sulla ripresa del centrodestra,
concedendo al governo Letta un clima politico più sereno e meno nevrotico.
E vengo al PD. Paradossalmente le
carte migliori, per un’altra Italia, finalmente sburocratizzata, ammodernata,
innovata nella Costituzione e nella forma della governance, ce le ha il PD.
Proprio quel partito depresso, che ha consumato l’autodafè di un gruppo
dirigente che dalla sua tradizione, non avendo più visione, ha ereditato solo
le parte oscura della conservazione di
se stesso. La forza del nuovo PD è la presenza in campo, contemporaneamente al
persistere degli zombie, di una
leadership reale, dinamica, appassionante, che aggrega, ed è potenzialmente
maggioritaria. L’ultimo voto sta a dimostrarlo con una costanza, dal 2011, che
solo la protervia di politici incapaci o resi ciechi da ideologie obsolete, riesce
a non vedere.
Debora Serracchiani ha
ironicamente chiosato il risultato sostenendo che si vince nonostante i
problemi del PD. Molto di vero c’è in questo paradosso e bisogna farci i conti
al congresso: il PD è dentro il popolo italiano. Plurale, radicato, meticcio, costituzionale,
solidaristico, pragmaticamente laico e legalitario; amministra da sempre
migliaia di comuni grandi e piccoli: non ha nei suoi elettori, come aveva
intuito il Lingotto, la rigidità e i difetti delle nomenclature originarie. La
stragrande maggioranza di questo elettorato, pur segnato pesantemente dall’insulto
di una nomenclatura incapace - che ha prodotto, è bene non dimenticarlo, un’ulteriore fuga verso l’astensione di
quattro/cinquecentomila elettori delle politiche - ha creduto al governo del
proprio territorio, ha votato i suoi rappresentanti.
Quale PD deve sopravvivere o
rivivere?
- Un PD senza soldi pubblici
intanto. E, badate bene, è veramente una rivoluzione che cambia completamente
il rapporto tra i cittadini che decidono di aderirvi sulla base di una scelta
del campo di valori laici, costituzionali, di libertà e solidarietà e di selezione
meritocratica della rappresentanza. La
fine dei tesorieri centrali e correntizi e l’avvento della trasparenza totale
delle contribuzioni militanti e private cambiano radicalmente la natura di un partito. Il
denaro rende disuguali le persone e i progetti. Non la meno troppo lunga su
questo aspetto: la cronaca degli ultimi venti anni è ricca di esempi di
disinvolto e illegale uso del denaro pubblico per alimentare le proprie
personali prospettive di carriera politica. Dopo Greganti e Citaristi è
finita la stagione dei fundraiser di
partito ed è dilagata quella dei conti
personali.
- Un PD centro studi che
selezioni i progetti, le donne e gli
uomini migliori e competenti, per
l’amministrazione della cosa pubblica
sottoponendoli costantemente al vaglio dei suoi riferimenti sociali.
.- Un PD che promuova la selezione di una classe dirigente nel
tempo misurabile per dare prova di sé nell’azione di governo locale e nazionale,
con un limite rigoroso dei mandati.
- Un PD che separi nettamente le responsabilità di partito
da quelle istituzionali scegliendo con primarie aperte a tutti i cittadini la
premiership.
- Un PD organizzato in tutte le forme varie e possibili che
una comunità del XXI secolo riesce a
pensare
- Un PD che, nell’immediato, si faccia dunque vigoroso
portatore del rinnovamento della Costituzione per un presidenzialismo alla
francese che assicuri la governabilità essenziale
per le sfide continentali.
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